GARABANDAL
Poema Portafortuna
Le fonti di ispirazione di «GARABANDAL, POEMA
PORTAFORTUNA»
(ovvero
la musica che ho ascoltato durante la realizzazione dell’album...)
… e Marc Chagall.
Non conoscevo Evanthia
Reboutsika sino a quando non vidi “Un tocco di zenzero”.
Si tratta di un film delizioso che
vi consiglio, ma quello che a me colpì davvero fu la colonna sonora, di
Evanthia Reboutsika, appunto.
Evanthia è greca, compone musica
dal piacevolissimo sapore melodico, nella quale Oriente e Occidente si
incontrano e si abbracciano scambiandosi, a volte, gli strumenti.
Grazie a Dio ci sono ancora
musicisti a questo mondo che riescono a fare musica anche senza basso e
batteria.
Evanthia compone, suona e,
talvolta, canta anche. Ha una bellissima voce, ma non è ossessionata dalle
canzoni (come accade invece per quasi tutti i musicisti contemporanei) e
personalmente preferisco i suoi affreschi strumentali, così ricchi e intensi,
alle canzoni.
Mi procurai non solo la colonna
sonora di “Un tocco di zenzero”, ma anche i suoi altri lavori: Babam
ve Oglum, To asteri kai i efhi, Mikres istories, O Xoros
ton Astron, e sono tutti ottimi dischi.
Li ho ascoltati moltissimo nel
periodo in cui ho realizzato Garabandal e questo mi ha senza dubbio
condizionato, almeno in alcuni momenti. In particolare posso dire che la
melodia d’apertura di “Namtaru” (la quinta traccia del cd) è senza
dubbio nata dalle suggestioni indotte dalla musica di Evanthia.
Mi sono dimenticato di dire che Evanthia è anche una donna
bellissima. E questo rende ancora più piacevole l’ascolto della sua musica…
La musica di Mike Oldfield mi
accompagna da quando ho 14 anni. Eppure di tutta la sua vastissima produzione
musicale soltanto tre album hanno lasciato il segno su di me: i primi tre,
quelli che realizzò negli anni ’70, in meno di un lustro, dai 17 ai 23 anni.
Così giovane, così pieno di
talento, così interessante come persona. Mike Oldfield era allora un ragazzo
schivo, un vero anti-divo, che viveva in campagna e, quando non suonava,
passava il tempo facendo volare alianti e passeggiando a cavallo fra le
colline.
Poi deve essergli successo
qualcosa, perché a un certo punto si è trasformato diventando una persona
completamente diversa (e peggiore): ha cominciato a fare una musica vuota,
senz’anima, commerciale e decisamente brutta. Ha abbandonato di colpo la
sobrietà dei casali di campagna ed è passato al lusso delle megaville a Ibiza,
alle Ferrari, alle moto, alla vita notturna, alle donne… cambiando ognuna di
queste cose con estrema velocità e lasciandosi quasi una decina di figli alle
spalle.
Oggi vive con l’ennesima moglie
(che ha la stessa età della sua primogenita), nell’ennesima villa alle Baleari,
ha uno yacht e colleziona moto potenti. Ha pure detto di essere stanco di fare
musica (ma và?).
Colpa dei soldi? Della fama? Della
troppa fortuna?
Non lo so e neppure mi interessa,
sono fatti suoi, dopotutto.
Resta però il fatto che Tubular
Bells, Hergest Ridge e Ommadawn (i suoi primi 3 album) sono
capolavori e, per me, sono come quei libri che tengo vicino al letto perché non
mi stancano mai, e in qualunque momento li riprendo mi rivelano sempre qualcosa
di nuovo.
Credo di avere ascoltato questi dischi centinaia di volte e non me ne sono ancora stancato; in ogni fase della mia vita hanno assunto sempre una forma nuova, un sapore diverso… come accade quando abbiamo a che fare con dei veri capolavori.
Chi conosce la musica del primo
Mike Oldfield riconoscerà subito la sua influenza in “Garabandal”,
soprattutto nella struttura a suite dei brani, nella scelta di alcuni suoni
tipici (per es. le vintage “string machine”, le percussioni orchestrali, le
campane…), nel suono fluido della chitarra elettrica e in altri registri
stilistici ancora. Molti di questi influssi sono involontari, nel senso che lo
stile ‘oldfieldiano’ è talmente radicato in me che nemmeno io me ne rendo conto
quando trapela dalla scelta di questa o quella soluzione timbrica.
L’unica scelta consapevole che ho
tratto dallo stile di Mike Oldfield è la conclusione di tutto il progetto del
disco con una ‘marcetta’.
Mi spiego: mi è sempre piaciuto il modo in cui Mike Oldfield chiudeva i suoi album mettendo proprio negli ultimi minuti del lato B una improvvisa e festosa “marcia”, ovvero un brano in 4/4 veloce e trascinante dal sapore di tipica danza tradizionale (e a volte lo era davvero).
Si congedava dall’ascoltatore con
un momento musicale gioioso e divertente.
Ha fatto questo in Tubular Bells (con la notissima “The Sailor’s
hornpipe”), in Ommadawn e in altri album ancora.
Era come un fuoco d’artificio, un
saluto festoso dalla carrozza nel momento in cui l’amico del cuore si congeda
dicendoci: “la musica è finita, ma non essere triste, c’è tanta gioia nel
mondo, ci rivedremo presto!”.
Così ho voluto fare io, e ho chiuso
“Pipalun”, che è l’ultima traccia di “Garabandal”, con una “marcetta”,
ossia con qualche minuto di musica dal sapore festoso, quasi infantile,
scandito da poche ma galoppanti percussioni acustiche: ciò che io chiamo,
appunto, una “marcetta” e che è, nonostante la definizione che può apparire
riduttiva, un modo bellissimo di uscire di scena: un modo solare e positivo.
Come si dovrebbe fare anche nella
vita.
il PRIMO È il giovane
Mike, ai tempi in cui si dedicava alla musica, alla natura, alla campagna...
L’altro è il Mike di oggi, quello con troppe mogli, troppi figli, troppi
soldi...
Francese il primo, spagnolo il
secondo, ma con alcuni registri stilistici che li accomunano: la semplicità
delle melodie suonate però con incredibile maestrìa; la miscela speziata di strumenti
di estrazione classica con strumenti della tradizione popolare... persino i
caratteri di entrambi i compositori si assomigliano: schivi e umili, lontani
dalle stravaganze delle star... queste sono le ragioni per cui le atmosfere
musicali di Yann Tiersen e Javier Navarrete sono così magiche e poetiche, anche
quando si tratta solo di affreschi talmente brevi da sembrare solo appunti.
Non a caso le composizioni di
questi due musicisti sono diventati commenti sonori in alcuni film decisamente
onirici e fantastici, quali “Il favoloso mondo di Amèlie” per il primo,
e “Il Labirinto del Fauno” per il secondo (da cui è tratta l’immagine
qui a fianco).
Da loro ho imparato a non
allontanarmi mai dalla semplicità, perché solo così si possono scrivere versi
poetici usando le note invece delle parole...
Nick Mason, il batterista dei
Pink Floyd, ha scritto in questi anni “Inside Out” un voluminoso libro
sulla storia della band, da prima che i Pink Floyd nascessero sino ai giorni
nostri.
In questo libro, piacevolissimo,
racconta di come un gruppo di amici, compagni di studi, cominciarono a suonare
per divertimento dopo le lezioni. Il caso ha voluto che facessero questo in un
periodo della storia, ossia a metà degli anni ’60, quando la società era in
tale fermento e assetata di linfa artistica, che la musica veniva considerata
dai giovani un genere di prima necessità (prima che qualche demone inventasse i
telefonini...)
E dato che molto c’era allora
ancora da inventare, da scoprire e da creare, i più creativi e ingegnosi
avevano grandi spazi di manovra e sicure possibilità di carriera. Chi aveva
delle idee aveva anche l’opportunità di metterle a frutto (a differenza di oggi
i cui parametri di affermazione in campo culturale e artistico non hanno nulla
a che vedere con la qualità delle idee).
I Pink Floyd avevano talento
artistico, talento creativo e talento ingegneristico, per questo sono diventati
i Pink Floyd.
Nick Mason racconta di come
nascevano i loro progetti musicali, della voglia di sperimentare soluzioni
sempre nuove, di come con materiali di fortuna davano corpo a cose geniali (per
esempio: il cuore che pulsa in apertura di “The Dark Side of The Moon”
non è mica un cuore vero… è fatto percuotendo una cassa riempita di stracci) e
di come non fossero per nulla interessati a comporre delle “hit”, cioè delle
canzoni furbe da vendere al mercato di consumo (sebbene alcuni loro brani siano
incidentalmente diventati delle hit).
I loro album nascevano da idee
culturali, le stesse che gli scrittori usano per i libri, i pittori per i
quadri, gli sceneggiatori per le pièces teatrali o i film… che diventavano il
perno intorno a cui costruivano l’album. Legavano i brani fra loro con momenti
musicali di transizione in modo che ci fosse continuità nell’ascolto e il
progetto risultasse omogeneo, ossia non frammentato in tante canzoni
indipendenti.
Come per Mike Oldfield, anche per i
Pink Floyd questo momento magico durò poco, sostanzialmente un decennio,
dopodiché si allinearono agli standard del
mercato (o, per meglio dire, persero la spinta creativa). Fecero
comunque in tempo a realizzare una mezza dozzina di album straordinari, che non
cito nemmeno dando per scontato che tutti sappiano a quali mi riferisco.
Questi loro primi album hanno ancora molto da dire ai musicisti di oggi, specie a quelli che rifiutano di farsi ingabbiare nella camicia di forza della musica standard, quella musica buona per le radio commerciali, della musica per la televisione e per gli “utenti” bulimici e superficiali che i direttori di marketing manovrano come burattini.
Chi vuol fare davvero buona musica,
non può ignorare il lavoro che i Pink Floyd hanno fatto dal 1968 al 1978…
Nel booklet del cd ho incluso un
testo, “Gli Angeli di Chagall”, in cui partendo da questi spunti, cerco
di mostrare i rapporti stretti che legano l’arte, la natura e quanto la nostra anima faccia parte di
questa rete di relazioni...
Bene,
questi sono stati i miei spiriti guida nella realizzazione di GARABANDAL... cosa
significa Garabandal, i simboli che sono riportati nel booklet, il messaggio in
codice morse all’inizio della seconda traccia e perché l’ho chiamato “Poema
portafortuna” ve lo racconterò un’altra volta.
Grazie dell’attenzione.
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